mercoledì 5 giugno 2013

Il "possibile" generatore


L'angoscia
Kierkegaard



Kierkegaard affronta direttamente, nelle sue due opere fondamentali, Il concetto dell'angoscia e La malattia mortale, la situazione di radicale incertezza, di instabilità e di dubbio, in cui l'uomo si trova costituzionalmente per la natura problematica del modo d'essere che gli è proprio.

Nel Concetto dell'angoscia questa situazione è chiarita nei confronti del rapporto dell'uomo con il mondo, nella Malattia mortale nei confronti del rapporto dell'uomo con se stesso, cioè nel rapporto costitutivo dell'io.

L'angoscia è la condizione generata nell'uomo dal possibile che lo costituisce. Essa è strettamente connessa con il peccato ed è a fondamento dello stesso peccato originale.

L'innocenza di Abramo è ignoranza; ma è un'ignoranza che contiene un elemento che determinerà la caduta. Questo elemento non è né calma né riposo; non è neppure turbamento o lotta, perché non c'è ancora niente contro cui lottare. Non è che un niente; ma proprio questo niente genera l'angoscia. A differenza del timore di altri stati analoghi che si riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l'angoscia non si riferisce a nulla di preciso. Essa è il puro sentimento della possibilità.

"Il divieto divino rende inquieto Adamo perché sveglia in lui  la possibilità della libertà. Ciò che si offriva all'innocenza come il niente dell'angoscia è ora entrato in lui, e qui ancora resta un niente : l'angosciante possibilità di potere. Quanto a ciò che può, egli non ne ha idea, altrimenti sarebbe presupposto ciò che ne segue, cioè la differenza tra il bene e il male.
Non vi è in Adamo che la possibilità di potere, come una forma superiore d'ignoranza, come un'espressione superiore di angoscia, giacché in questo grado più alto essa è e non è, egli l'ama e la fugge".
                                                                                                                                                                                ( Kierkegaard )

Nell'ignoranza di ciò che può, Adamo possiede il suo potere nella forma della pura possibilità; e l'esperienza vissuta di questa possibilità è l'angoscia.

L'angoscia non è né necessità né libertà astratta, cioè libero arbitrio; è libertà finita, cioè limitata e impastoiata     , e così si identifica con il sentimento della possibilità.




La connessione tra l'angoscia, il possibile e il futuro

Il passato può angosciare solo in quanto si ripresenta come futuro, cioè come una possibilità di ripetizione. Così una colpa passata genera angoscia solo se non è veramente passata, giacché se fosse tale potrebbe generare pentimento, non angoscia. L'angoscia è legata a ciò che non è ma può essere, al nulla che è possibile o alla possibilità nullificante. Essa è legata strettamente alla condizione umana.




L'infinità o l'onnipotenza del possibile

Kierkegaard collega l'angoscia strettamente con il principio dell'infinità o dell'onnipotenza del possibile, principio che egli esprime più spesso dicendo :
"nel possibile, tutto è possibile".

Per questo principio, ogni possibilità favorevole all'uomo è annientata dall'infinito numero delle possibilità sfavorevoli.
L'infinità o indeterminatezza delle possibilità rende insuperabile l'angoscia e ne fa la situazione fondamentale dell'uomo nel mondo.


L'illusione effimera del piacere


Dolore, piacere e noia
Arthur Schopenhauer


Affermare che l'essere è la manifestazione di una volontà infinita equivale a dire, secondo Schopenhauer, che la vita è dolore per essenza.
Infatti volere significa desiderare, e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione, per la mancanza di qualcosa che non si ha e si vorrebbe avere. 

Il desiderio risulta quindi, assenza, vuoto, indigenza : ossia dolore.

E poiché nell'uomo la volontà è più cosciente, e quindi più "affamata", egli risulta il più bisognoso e mancante degli esseri, e destinato a non trovare mai un appagamento verace e definitivo:


"Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l'appagamento; tuttavia per un desiderio che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stesso insoddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo : quello è un errore riconosciuto, questo un errore non conosciuto ancora.
Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole (...) bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento".
                                                                                                         ( Il mondo come volontà e rappresentazione, par.38 )


Inoltre, ciò che gli uomini chiamano godimento (fisico) e gioia (psichica) è nient'altro, come aveva già sostenuto Giacomo Leopardi, che una cessazione di dolore, ossia lo scarico da uno stato preesistente di tensione, che ne rappresenta la condizione indispensabile.
Infatti, argomenta Schopenhauer, perché ci sia piacere bisogna per forza che vi sia uno stato precedente di tensione o di dolore ( es. il godimento del bere presuppone la sofferenza della sete ).
La stessa cosa non vale non vale tuttavia per il dolore, che non può affatto essere ridotto, con un puro gioco dialettico di parole, a cessazione di piacere, poiché un individuo può sperimentare una catena di dolori, senza che questi siano preceduti da altrettanti piaceri, mentre ogni piacere nasce solo come cessazione di una qualche preesistente tensione fisica o psichica.

Pertanto, mentre il dolore, identificandosi con il desiderio, che è la struttura stessa della vita, è un dato primario e permanente, il piacere è solo una funzione derivata del dolore, che vive unicamente a spese di esso. Infatti il piacere riesce a vincere il dolore solo a patto di annullare se stesso : non appena vien meno lo stato di tensione del desiderio, cessa anche il godimento.

"Che ogni felicità sia di natura negativa soltanto, e non positiva (...) ne abbiamo una prova anche in quello specchio fedele del mondo e della vita che è l'arte, soprattutto nella poesia. Ogni poesia epica o drammatica può in ogni caso rappresentare soltanto uno sforzo, un'aspirazione attiva, una lotta per la conquista della felicità, e non mai la felicità stessa durevole e compiuta. Essa conduce il suo eroe attraverso mille difficoltà e pericoli sino alla metà: non appena questa è raggiunta, subito lascia cadere il sipario. Null'altro, infatti, le resterebbe, se non mostrare che la luminosa meta, nella quale l'eroe sognava di trovare la felicità, ha beffato anche lui, di modo che, quando l'ha raggiunta, egli non si trova meglio di prima".
                                                                                                               ( Il mondo come volontà e rappresentazione, par.58)


Accanto al dolore, che è una realtà durevole, e al piacere, che è qualcosa di momentaneo, Schopenhauer pone, come terza situazione esistenziale di base, la noia, la quale subentra quando vien meno l'aculeo del desiderio oppure il frastuono delle attività o il pungolo delle preoccupazioni. 
Di conseguenza, conclude Schopenhauer: 
la vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando attraverso l'intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia.

Se il dolore costituisce quindi la legge profonda della vita, ciò che distingue i casi e le situazioni umane è solo il diverso modo e le diverse forme in cui esso si manifesta:


"variando secondo età e circostante, come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia, invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, infermità, ecc. E se finalmente non riesca a trovar via in nessun'altra forma, viene sotto la malinconia, grigia veste del tedio e della noia".
                                                                                                               (Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 57)